Gli scaffali dell’Ippocampo – n. 3
“Dovete provare le medesime sensazioni che provarono “loro”. La stessa sofferenza. La stessa fatica.”
La ragazza che ci faceva da guida turistica pronunciò queste parole senza alcuna empatia. Lo fece con un tono di voce aspro e duro. Che non era solo professionalmente didascalico, ma intenzionalmente sprezzante. Ogni parola che scaturiva dalle sue labbra era sferzata piuttosto che pronunciata, così da poter riecheggiare fastidiosa e terrificante nelle nostre menti. Allo stesso modo di come “loro” le avevano ascoltate, prima di incamminarsi a percorrere il medesimo tragitto che a nostra volta stavamo per intraprendere.
Noi dovevamo, dunque, immedesimarci in “loro”. Nel senso che non dovevamo solo limitarci a reagire come “loro”; no: dovevamo proprio diventare “loro”. E per farlo dovevamo provare le loro stesse sofferenze. Solo così, forse, avremmo compreso.
Lei stessa, adottando quel tono di voce così intriso di sadismo, appariva trasfigurata davanti ai nostri occhi. Trasformata in una kapò nazista. Una di quelle virago con la divisa bruna, il berretto nero con visiera, i teschi sulle mostrine, lo scudiscio perennemente nella mano ed una fascia rossa con la svastica nera al braccio sinistro.
E dire che prima di quella trasformazione la ragazza sembrava persino graziosa. Nulla di particolarmente affascinante, in verità; ma almeno di aspetto piacevole. Aveva un aplomb placido, addirittura remissivo. Almeno così si era mostrata a noi durante il viaggio. Taciturna, persino assente. Sino a quel momento. Sino a quando, cioè, arrivammo alla stazione ferroviaria di Bohušovice-nad-Ohří, nella Repubblica Ceca. Sessanta chilometri a nord ovest di Praga. A due passi dalla Germania.
Appena scesi sulla banchina la ragazza ci impose di disporci allineati uno di fianco all’altro. Dopo di che, iniziò ad arringarci con quel tono di voce sprezzante e sadico. Trasfigurata. In una terrificante e sadica kapò. Più che parlarci, ci abbaiava contro. Come se si stesse rivolgendo a “loro” e non a noi. Non ad un gruppo di attoniti e disorientati turisti. Il tono della sua voce era orrendamente modificato. Come se scaturisse da corde vocali arrochite dalla consuetudine di urlare. I suoi ordini furono perentori e minacciosi. “Non utilizzeremo il bus. Arriveremo lì a piedi, come ci arrivarono loro. Marciando. E siete fortunati. Mica come loro, che dovevano camminare velocemente. Senza potersi fermare nemmeno un attimo a riprendere fiato. Nemmeno per raccogliere quel che cadeva dai loro bagagli… Perché se si attardavano anche solo per un istante li facevano muovere a calci nella schiena. Lo farei volentieri anch’io con voi, se potessi. E non è detto che non lo faccia davvero… Andiamo, ora. Muoversi!”
In realtà lo scopo della ragazza era, né più né meno, che quello di terrorizzarci. Esattamente come era accaduto a “loro” quando si ritrovarono allineati su quella stessa banchina a subire il medesimo trattamento. Ad ascoltare le stesse parole. Soprattutto, voleva evocare in me e nei miei compagni di viaggio un irrefrenabile sentimento di odio. Innanzitutto nei suoi stessi confronti, in ciò che stava impersonificando. E ci riuscì benissimo, dal momento che fui davvero sul punto di assestarle un calcio nel fondoschiena.
Perché, dunque, comprendessimo appieno l’essenza del posto dove ci stavamo dirigendo dovevamo immedesimarci in quel che avevano provato “loro” una settantina di anni prima. Totalmente. Odio compreso.
Da quel momento in poi, noi dovevamo essere “loro”. Punto e basta.
Di certo la carrozza del treno in cui noi avevamo viaggiato era tutt’altra cosa che il carro bestiame impregnato di sangue, sudore e vomito in cui “loro” venivano ammassati. Da cui su quella stessa banchina venivano fatti scendere spauriti e stanchi. Per essere raggruppati, vituperati, umiliati, spintonati, picchiati. Per poi percorrere a piedi, con il bagaglio in spalla, quella manciata di chilometri sino alla loro destinazione finale. Quella che per gli anni seguenti sarebbe stata la loro sede di vita, di studio e di lavoro. E, per molti di essi, l’ultima dimora.
Terezin.
O, alla tedesca, Theresienstadt: la città di Teresa. Così l’avevano battezzata poco più di un secolo prima. Un nome persino gentile, che mal si addiceva al filo spinato e al cordone di guardie armate che a quei tempi la circondavano.
Era una piccola città fortificata riconvertita in ghetto. Anzi, in un enorme campo di concentramento. “Loro”, quelli furono destinati a riempire gli edifici di quella cittadina, erano gli abitanti del quartiere ebraico di Praga. Uomini, donne e soprattutto bambini. Tanti, tantissimi bambini. Tutti strappati alle loro case, alle loro scuole, ai loro giochi, alle loro abitudini, ai loro affari. Forzatamente condotti in quella fortezza adagiata nella campagna boema. È lì condannati a vivere il resto della propria esistenza lontani da consuetudini ed amicizie, da sinagoghe e templi, da scuole e bistrot. Depredati della propria Storia e delle proprie radici.
Ad essi si aggiunsero moltissimi altri deportati; tutti di altissimo livello intellettuale. Artisti, attori, registi, scrittori, musicisti, filosofi, diplomatici, letterati, giuristi. Giunsero dalla Germania, dall’Austria, dalla Danimarca, da tutta Europa. C’era anche qualche italiano. Tutti rigorosamente ebrei.
Terezin all’epoca era in grado di accogliere un massimo di settemila abitanti. Ne furono stipati oltre centoquarantamila. Ne rimase vivo uno su dieci. Non ce la fecero soprattutto i bambini, schiantati soprattutto dalla carenza di cibo e dalle epidemie.
In realtà, agli occhi della comunità internazionale quel campo veniva gabellato come fosse una sorta di residence turistico in cui la popolazione ebraica era felicemente ospitata. In cui gli adulti avevano tutti un lavoro. In cui i piccoli frequentavano regolarmente le scuole. Ed in cui nel tempo libero si poteva assistere ad incontri sportivi, concerti, spettacoli, eventi letterari. Tutto doveva apparire fuor che un luogo di detenzione. A parte il fatto che si veniva mitragliati appena si metteva il naso appena fuori la cinta muraria.
Un palcoscenico della menzogna, dunque. In cui si rappresentava la mistificazione della realtà ogni qualvolta giungevano a visitarlo gli Ispettori della diplomazia internazionale. Soprattutto quelli della Croce Rossa. Un teatrino i cui attori erano gli stessi internati; che dovevano interpretare la parte di ospiti felici e sereni. Ma che, calato il sipario, tornavano alla quotidiana vita di stenti ed umiliazioni. Sino alla farsa successiva. Sempre che non soccombessero nel frattempo. O che non venissero portati via. Ai campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz. Da dove non tornavano più.
Era né più né meno che una truffa. Da negozianti disonesti: quelli che espongono in vetrina la mercanzia migliore, per poi rifilare al cliente malaccorto gli scarti di magazzino. Almeno in questo i nazisti superarono in laidezza la proverbiale furbizia mercantile degli stessi ebrei che tanto esecravano.
Era dunque lì che stavamo andando. A Terezin. Di lì a poco avremmo visitato il famigerato “Campo dei Bambini”. Così veniva chiamato.
Di lì a poco avremmo calcato quello stesso suolo sul quale aveva risuonato il rumore concitato dei passi dei prigionieri e dei loro carnefici. Dove avevano riecheggiato il crepitio delle raffiche delle mitragliatrici, le urla degli aguzzini e le grida straziate delle vittime. Di lì a poco avremmo visto. E, chissà, forse compreso.
Ci incamminammo. E tutto taceva. Tutto era spettrale. Fu il silenzio più cupo la colonna sonora che accompagnò quel nostro arrancare sul Golgota della memoria. Per tutto il tragitto che andava dalla stazione ferroviaria sino alla nostra destinazione non incrociammo anima viva. Nessuno era per strada, né alle finestre. Nessuno: né adulti, né bambini. Non un rumore, non un suono, non un brano musicale, non una voce scaturiva dalle abitazioni, dai magazzini, dalle officine. Nulla. Si udivano solo i nostri respiri resi affannosi dal caldo e dalla fatica emergere ritmicamente tra un passo e l’altro.
Uscimmo dall’abitato, continuando a marciare a testa bassa in aperta campagna. Procedemmo per una quindicina di minuti sotto un sole cocente smanacciando istericamente l’aria per allontanare nuvole di tafani, che ci si attaccavano addosso ammaliati dal sudore di cui eravamo ormai totalmente intrisi.
Il benvenuto alla Fortezza ci fu dato nella peggiore maniera che avessi mai potuto immaginare e temere. Dall’immobile rincorrersi di decine di lapidi annerite dal tempo e dall’incuria. Eravamo arrivati a Terezin.
Quello che avevamo davanti ai nostri occhi era il suo cimitero. Eravamo al cospetto dell’area di sepoltura del campo. Le pietre tombali erano nella maggior parte dei casi contrassegnate da una stella di David incisa sotto i nomi degli inumati. Su alcune di esse erano visibili le date di nascita e di decesso. Quando le lessi rimasi sconvolto: erano in maggioranza bambini.
Non c’erano epitaffi su quei simulacri. Solo nomi e date. E tanti, tantissimi sassolini. appoggiati su di essi; come è consuetudine nella tradizione ebraica. Perché i fiori appassiscono ed i loro petali volano via col vento. Ma le pietre no. Rimangono lì, così che la memoria non abbia mai a cessare.
Di lì a qualche centinaio di metri si stagliava, orrido e tetro, il caseggiato nel quale erano dislocati i forni crematori. Lo raggiungemmo. Era in quella specie di stabilimento dalle pareti nere come se fossero verniciate di pece che chi un tempo era stato un figlio, un nipote, un fratello, una sorella, una ragazza, un amico che correva, giocava, suonava, studiava, rideva, piangeva, amava, sognava veniva ridotto a null’altro che un mucchietto di cenere. Da versare in una scatola di cartone. E da seppellire velocemente.
Era già troppo per me. Quel poco che avevo visto mi aveva talmente sgomentato che mi sarei volentieri fermato lì. E tornato indietro. Cos’altro avrei dovuto guardare, vedere, subire, sopportare proseguendo oltre?
Tuttavia non mi fermai. Dovevo continuare. Lo dovevo a “loro”. Lo dovevamo a “loro”. Per cui tutti insieme, in silenzio, a testa bassa, riprendemmo il cammino verso la Fortezza Maggiore.
Poco prima di varcane l’ingresso scavalcammo un canale in cui un gruppo di nutrie si rincorreva sollevando alti spruzzi di acqua. Chissà se ce n’erano anche settanta anni prima. Chissà se anche i bambini che percorsero quello stesso ponticello almeno per un attimo abbozzarono un sorriso. Chissà.
Superato il varco nelle mura ci ritrovammo nell’inferno che fu. Eravamo entrati a Terezin. Il benvenuto ci fu dato dalla consueta grottesca scritta: “ARBEIT MACHT FREI (Il Lavoro Rende Liberi)”, apposta su un cancello. Non c’era campo, di prigionia o sterminio che fosse, che non la esibisse al suo ingresso in tutta la sua paradossale assurdità.
Il resto della visita fu un susseguirsi di segni e testimonianze che si srotolarono davanti ai nostri occhi come fotogrammi di una pellicola cinematografica. Di un film già visto. Troppe volte. Quel che invece gli occhi (e nessuno degli altri sensi) non potevano cogliere erano gli aspetti più spiccioli della umana quotidianità: gli odori, i suoni, le speranze, le emozioni, i dolori che un tempo avevano riempito l’aria di quei luoghi… Quelli no, sicuramente non potevamo a nostra volta provarli. E nemmeno la inaudita sofferenza di chi in quei luoghi soggiornò.
Gli ambienti in cui “loro” vissero erano glaciali d’inverno e torridi nei mesi estivi. L’igiene era inesistente. Così come il cibo e le medicine. In tali condizioni dilagavano promiscuità e sporcizia. Per cui le epidemie erano all’ordine del giorno. Si ammalavano in tantissimi e ne morivano parecchi. Troppi.
E morivano parecchi bambini. Tanti. Troppi.
Girammo a lungo nella Fortezza. Sinché la guida non ci concesse la grazia di una pausa. Ella stessa era ormai diversa dalla virago in cui si era trasfigurata alla discesa dal treno. Sembrava essere rientrata nei panni della ragazzina anonima, persino gentile e comprensiva. Il suo scopo, quello di esasperarci, era ormai stato raggiunto. Il senso dell’orrore, ormai, ci veniva trasmesso da tutto quanto ci circondava. Non era più necessario che lo evocasse lei.
Il gruppo si sciolse. Ci saremmo ritrovati dopo un’ora per proseguire la visita.
Fui felice di quella sospensione. Avevo davvero necessità di starmene da solo. All’aperto. Ma soprattutto solo.
Mi allontanai dal resto del gruppo. Raggiunsi lentamente la grande piazza che si apriva nella zona centrale della cittadina. Era ariosa; e soprattutto ben riparata dai raggi solari del mezzogiorno grazie sia ai suoi tanti alberi, che all’ombra proiettata dai fabbricati che la circondavano.
Ero stremato dall’afa e sfinito dalle emozioni. Individuai una panchina opportunamente ombreggiata e mi ci sistemai. Più comodamente possibile. Poggiai il dorso sullo schienale del sedile, reclinai il capo all’indietro sino a poggiare la nuca e diressi lo sguardo in avanti. Di fronte a me, a una decina di metri di distanza, si stagliava l’edificio che all’epoca del Campo era utilizzato come scuola. Chiusi gli occhi, inspirai profondamente e rilassai i muscoli. Dal terreno sentivo salire, gradevole, un fragrante odore di mughetto ed erba bagnata. Finalmente la tensione indotta da tutte le emozioni provate sino a quel momento iniziava a stemperarsi. La nebbia grigiastra che ottenebrava la mia mente iniziò a dileguarsi; ed i pensieri di morte e dolore che vagavano caoticamente al suo interno cominciarono a dissiparsi. Stava sopraggiungendo ad abbracciarmi un confortante stato di torpore. Stavo iniziando ad addormentarmi.
Poi giunsero alle mie orecchie quelle voci. Non in maniera brusca, ma aumentando gradualmente di intensità. Come se qualcuno stesse girando lentamente la manopola del loro volume. Erano grida spensierate di bambini. Per nulla fastidiose, tutt’altro. Anzi, assolutamente confortanti. Cos’altro avrebbe potuto essere più rassicurante che sentire risuonare voci innocenti ed allegre in un posto dove la presenza della Morte incombeva dovunque? Dove tutto era intriso di dolore? Dove i muri, la terra, gli alberi, forse anche le nuvole stesse sembravano grondare il sangue di cui erano stati impregnati al tempo della follia? Proprio dove un tempo erano riecheggiate grida di dolore e singulti di disperazione, ora imperversavano chiassose parole di gioia e grida giocose. Ascoltarle non poteva certo infastidirmi. Assolutamente no!
Ad un certo punto, tra un lazzo ed una canzoncina, tra un gridolino ed una risata, iniziarono a diffondersi nell’aria delle note musicali. Le percepivo sempre più distintamente. Un po’ impacciate, insicure, non sempre limpide. Ma armoniche e coerenti. Qualcuno lì, a due passi da me, stava suonando un violino. Aprì gli occhi. Ed incrociai il mio sguardo con il suo.
Quel ragazzino non era più alto di un metro e trenta centimetri al massimo. I suoi capelli erano biondo scuro. O, meglio, biondo sporco; dal momento che sicuramente da parecchio tempo non conoscevano la decisa azione di uno shampoo. Aveva una corporatura esile. Il volto era scavato e pallido. Le unghie delle mani apparivano orrendamente sporche e venate di striature di un qualcosa di color grigiastro. Vestiva con una maglietta a maniche corte, azzurrina, un bel po’ sdrucita soprattutto al colletto e sotto le ascelle. E costellata di decine di macchie di sporco di tutti i colori e le forme possibili. Sul petto, all’altezza all’incirca del cuore, penzolava scucito un frammento di stoffa di color giallo limone. Probabilmente doveva essere quanto rimasto di uno stemma distintivo di un istituto scolastico o di un gruppo sportivo o di chissà cos’altro. Indossava calzoni corti, a metà coscia. Come da noi portano (anzi, portavano) soltanto i bambini più piccoli. Erano di colore grigio chiaro. Notai che alla vita li teneva sollevati una cordicella di canapa, invece che una cintura. Le scarpe, grigie, apparivano completamente usurate e deformate, con entrambe le punte spalancate come le fauci di un coccodrillino affamato. Anche in questo caso erano due cordini di filo a fungere da stringhe.
Il ragazzo smise di suonare ed iniziò anch’egli a fissarmi incuriosito. Sorrise in maniera così accattivante che, per quanto il tono del mio umore non fosse dei migliori, mi rivolsi a lui con la massima cordialità di cui fossi capace:
“Buongiorno, giovane…”.
“Buongiorno a lei, signore.”
Aveva risposto in modo davvero assai cortese. Ed in un italiano pressoché perfetto. Evidentemente lo studiava a scuola e, avendo probabilmente compreso da dove venissi, mi usava la cortesia di mettermi a mio agio rispondendomi nella mia lingua. Gli chiesi come si chiamasse.
“Mi chiamo Gregor. Gregor Samsa”.
Incalzai: “E dimmi… Quanti anni hai?”
“Dieci anni e mezzo. Quasi undici.”
Ammiccai di fronte al tono impettito con cui mi aveva riposto. “Sei grande, dunque… Sei di queste parti, di Terezin?”
I suoi occhi vennero velati da un’ombra di tristezza “No, signore. Sono nato a Praga. Nel quartiere di Josefov. Però sono qui da un anno, ormai.”
“Ah, dunque ti sei trasferito. E ti trovi bene qui…?”
Assentì; ma senza convinzione. “Si. Abbastanza…. Non è male vivere qui. C’è tanta aria… Non è come stare in città. Qui è meglio perché si può stare più tempo all’aperto. Beh, certo un po’ mi manca il vecchio quartiere. Ma ho tanti amici anche qui.”
Aveva iniziato ad incuriosirmi. Per cui gli chiesi cosa gli mancasse maggiormente del posto dove viveva prima di trasferirsi lì. Rispose di getto.
“Sa… cosa, signore? Quello che mi manca di più è che quando uscivo di casa mi facevo il giro delle botteghe nella strada dove abitavo. I negozianti erano tutti amici di mio padre… Era come appartenere tutti alla stessa famiglia. Io ogni pomeriggio, appena finito di studiare, li andavo a trovare tutti. E alla fine del giro mi ritrovavo sempre qualche moneta in tasca o qualche dolcetto nella bocca. Sempre. Sa che anche qualcuno di loro è venuto qui? Non tutti però…”. Accompagnò queste parole con un sorriso ancora più luminoso di quello con cui mi aveva salutato.
Continuai: “Ci vai a scuola?”
“Certo che sì. E sono bravo, sa? Sono bravissimo in Storia. E dice il maestro che scrivo anche molto bene. Mi piace scrivere… Non esistessero l’aritmetica e la geometria, sarebbe ancora meglio però…” E proruppe in una sonora risata. “Signore, sa che l’anno prossino anch’io scriverò sulla rivista della scuola? Si chiama VEDEM. In realtà bisognerebbe avere già dodici anni per entrare in redazione, ma il mio maestro ha detto che chiederà di fare una eccezione per me… Capisce? Proprio per me. Perché sono bravo!”
VEDEM. Dove avevo già sentito quel nome? Rammentai che così si chiamava il giornalino edito dai giovani internati del campo di Terezin. Era una rivistina culturale autorizzata dai tedeschi, sempre allo scopo di conferire una facciata di “normalità” al campo. Evidentemente si stavano pubblicando delle edizioni rievocative. Proprio una bella iniziativa. E mi sembrò davvero bello che vi scrivessero ragazzi coetanei agli internati che lo animarono a quei tempi.
Ripresi il mio dialogo con Gregor. “Congratulazioni, allora. E cosa pensi di pubblicare?”
“Quello che mi chiederanno di scrivere… scriverò. Arte, poesia, letteratura… quello che vogliono. Ma se potrò scegliere chiederò di potere scrivere articoli di critica musicale.”
“Addirittura…”
“Certo. Perché la musica è la mia passione. Non ha sentito prima come suonavo?”
“Eccome se ti ho sentito. Mi hai anche svegliato!” Suggellai questa frase con una sonora risata. Quindi tornai serio “No…dai. Scherzo. Non mi hai disturbato. Non dormivo, in realtà. Ti ho ascoltato con vero piacere.”
Gregor chinò il capo in una specie di piccolo inchino, come quello che si esegue quando si ringrazia il pubblico che applaude. “Grazie, signore.”.
“Prego.” Risposi con ironico sussiego… “Ascolta. Non è che hai anche tu un po’ di appetito? Ho giusto qualcosa qui nello zaino. Dai, dividiamocela.”
Tirai fuori un paio di merendine e gliene porsi una. L’addentò e la inghiottì così rapidamente, che non potetti fare a meno di allungargli anche l’altra. Quella che avevo tenuto per me. Probabilmente in casa di quel ragazzo non dovevano passarsela troppo bene a giudicare dal suo aspetto, dallo stato dei suoi vestiti e dal suo appetito. A quella seconda offerta di cibo, difatti, Gregor mi guardò con occhi pieni di gratitudine. E divorò anche l’altra merendina senza esitare un attimo. Quindi si passò il dorso della mano sulla bocca per nettarsi le bricioline rimaste attorno agli angoli delle labbra; e ingurgitò anche quelle con voracità.
Quando ebbe deglutito il tutto, sollevò il violino, sistemò il fondo della cassa armonica nell’incavo tra collo e spalla sinistra, impugnò con stile l’archetto e con aria da concertista navigato mi comunicò con tono solenne: “E adesso, per ringraziarla del cibo che gli ha donato, il suo umile musico Gregor Samsa suonerà per lei.”
“Ah sì? Beh, grazie mille…” gli risposi con un lievissimo accenno di ironia.
“Prego, signore. Sono bravissimo, cosa crede… Sa che sono passato a suonare in terza posizione?”
“Accidenti… nientemeno che in terza posizione.” risposi nuovamente ironico, dal momento che ignoravo nella maniera più assoluta di cosa stesse parlando.
Rispose raggiante d’entusiasmo “E sì che sono bravissimo! Lo sa che il Maestro Hans Krása mi ha preso nella sua orchestra? Ad ottobre eseguiremo un grande concerto qui a Terezin. Suoneremo un’opera che si chiama BRUNDIBÁR. E ci sarò anch’io. Non vedo l’ora…”.
Così come mi era successo poco prima, quando avevo sentito il nome del giornale scolastico, ebbi di nuovo la sensazione di sapere di cosa stesse parlando il ragazzo. Rovistai di nuovo nei cassetti della mia memoria, sinché non ricordai. L’opera BRUNDIBÁR fu suonata proprio lì a Terezin nell’ottobre del 1944 in occasione di una ispezione alle condizioni di vita del campo da parte della Croce Rossa Internazionale. In quel modo si riuscì a far credere al mondo che quel posto fosse un’oasi di cultura e di istruzione. La parte terribile della storia sta nel fatto che, subito dopo aver terminato quella rappresentazione, tutti gli orchestrali (sia gli adulti che i ragazzi) furono trasferiti nel campo di Auschwitz. Da dove non uscirono più. Ormai non servivano più…
Nel frattempo che mi abbandonavo al flusso dei miei pensieri, Gregor con il suo violino era rimasto fisso a guardarmi. Era pronto a cominciare; ma attendeva educatamente che io gli dessi il via. Lo guardai, sorrisi e lo autorizzai a suonare. “Attacca … coraggio”.
“Le farò ascoltare una ballata che si suona ai matrimoni. Sentirà che bella…”
Si dette il tempo da solo ad alta voce, battendo simultaneamente quattro volte il piede per terra: “E… un, due, tre e quattro”.
Quindi attaccò una melodia veloce, allegra, coinvolgente. Irresistibile. Era bravo davvero quel soldo di cacio. Altro che. Davvero bravo. Lo ascoltai attentamente sino al termine del brano. Dopo di che risposi al suo inchino finale con un applauso corposo e sincero. Gridai “Bravo! Bravissimo! Fantastico questo brano Klezmer.”
Replicò con un altro inchino “Grazie, signore. Veramente non so come si chiami questo tipo di musica. L’ho sentita quando ero piccolo al matrimonio di mia sorella. Mi piace e la suono ogni tanto”. E proprio mentre effettuava quel deferente movimento di flessione del busto così consueto agli artisti quando hanno terminato la loro esibizione, un grosso frammento di legno si staccò dal violino appena sopra il manico. Era un pezzo del riccio, la spirale che abbellisce il manico; che posatosi sul verde brillante del prato, sembrava una grossa chiocciola marrone adagiata tra i fili d’erba. Gregor lo raccolse e, premendo, provò a farlo combaciare alla zona da cui si era staccato.
Notai che mentre effettuava questa operazione le ali del suo naso iniziarono a sollevarsi ritmicamente e gli angoli della bocca ad incurvarsi verso il basso: stava per scoppiare a piangere. Ma seppe trattenersi, ricacciando indietro tutte le lacrime che erano sul punto di sgorgare. Sollevò il capo da quello strumento ferito e mi fissò speranzoso che gli proponessi una soluzione al problema.
“Era già successo. Lo avevo già riparato” – disse – “Vede? Avevo infilato un chiodino per tenere fermo il pezzo. Ma ora non regge più…”
Sorrisi, cercando di essere più rassicurante che mi fosse possibile. “Stai calmo. Vediamo di cosa di tratta”. Afferrai saldamente il manico con una mano, con l’altra presi il frammento divelto e lo appoggiai sul riccio tentando di comporre la frattura. Le due superfici combaciavano perfettamente; e questo era già positivo. Si trattava, a quel punto, solo di fissarle l’una contro l’altra il più tenacemente possibile. Il chiodino che Gregor aveva infilzato nel legno era ancora al suo posto; ma evidentemente non era sufficiente. Ci voleva qualcos’altro…
Mi venne un’idea. Mi sfilai l’orologio e staccai il cinturino in cuoio dalla cassa. Dopo di che, poggiai il frammento staccato al riccio facendolo aderire per bene. Passai attorno ad entrambi quella specie di fettuccia e strinsi il tutto, fissandola facendo attraversare uno dei forellini alla testa dal chiodino che sporgeva dal legno. Reggeva. Anzi, reggeva proprio bene. E questa era la cosa più importante.
Restituii il violino riparato alla bene e meglio al suo legittimo proprietario. Gregor sino a quel momento aveva seguito tutta l’operazione con gli occhi sgranati e con l’espressione stupefatta di chi stesse osservando un mago all’opera.
“Visto che riparazione?” dissi tronfio come se avessi appena eseguito una operazione chirurgica a cuore aperto e non un modesto intervento di ebanisteria.
E rincarai la dose “Altro che maestro liutaio… Sono proprio un artista. Anzi, sai che ti dico? Io quest’opera te la firmo pure”.
Tirai fuori la penna dal taschino e, sollevato il cinturino, sulla parte interna vergai le mie iniziali: “C” ed “L”. Che con il loro colore blu brillante spiccarono nettamente sulla superficie chiara del cuoio. Quindi restituì definitivamente lo strumento al suo legittimo proprietario, rassicurandolo “Ora potrai suonare di nuovo”.
Il ragazzo non cessava di fissarmi. Mi teneva gli occhi incollati al viso, con una espressione di gratitudine che mai avevo visto in nessuno nella mia vita. Perlomeno sino a quel momento. Quando parlò, la sua voce era tremula, rotta dalla commozione. “Grazie. Grazie di cuore, signore. È Yahweh che l’ha mandata ad aiutarmi”.
Risposi assolutamente sorpreso: “Chi? Yahweh…? E chi sarebbe… Scusami, ma non ti seguo… non capisco di cosa tu stia parlando…”
“Lei non è credente, signore?”
Replicai con un po’ di impaccio: “Effettivamente non molto, ragazzo mio”.
“Ah, ho capito…” Rimase un po’ assorto a rimuginare chissà cosa, quindi disse “Mi scusi, signore. Posso farle una domanda?”
“Certamente… falla pure”
“Lei, di sera, prima di dormire, prega?”
“Assolutamente no. Non succede mai”
“Ma proprio… mai mai?”
“Mai!”
“Ho capito.” e tornò a rimuginare in silenzio, guardando nel vuoto e inseguendo chissà quali pensieri.
Quel suo atteggiamento diventò per me addirittura imbarazzante, al punto che mi sentii in dovere di abbozzare una mezza giustificazione. “In realtà, caro Gregor, se mai volessi farlo (e bada bene che non ti sto dicendo che lo vorrei) non saprei nemmeno come fare… da dove iniziare… Non conosco nessuna preghiera.”
Sgranò gli occhi, come se fosse stato rinfrancato dalla mia risposta. “Ah, se è solo per quello… non c’è problema. Faccia come faccio io.”
“Dimmi.”
“Quando arriva il momento in cui intende pregare, lei chiuda gli occhi e si metta a pensare… deve pensare a tutto quanto sia bello per lei… Paesaggi, fiori, montagne… Ma anche persone: parenti, amici, donne… Pensi a tutto quello che lei vuole, purché sia qualcosa che lei ritenga bello.”
“E perché fare questo… che senso ha…”
“Perché la Bellezza è sacra. Se lei pensa alla Bellezza, in quel momento sta pensando a chi l’ha creata. Sta pensando a Lui. E se pensa a Lui, automaticamente sta pregando… non crede?”
Non riuscì a evitare di manifestare al ragazzo il mio scetticismo. “Potresti anche aver ragione, Gregor. Ma, sai, non sempre si arriva a sera con la voglia e la possibilità di pensare alle cose belle… Quando si è stanchi è più facile ricordare quel che è successo di brutto durante il giorno. E non il contrario. Quindi non si riesce a pregare nella maniera che tu suggerisci.”
“Allora, in quel caso, quando è molto stanco o scoraggiato o addolorato e non le viene di pensare a nulla di bello… sa che deve fare? Chiuda gli occhi e ripeta, una per una le lettere dell’alfabeto… Dentro di sé… Sottovoce. A, B, C, D, e tutte le altre. Sino alla ZETA.”
“E a che serve… Che senso ha…”
“Serve… serve… Lei ci mette le lettere. E poi sarà Lui a metterle in ordine e a tirarne fuori qualcosa. Con le lettere si fanno le parole, no? Lui le prenderà, le metterà assieme e le trasformerà in Poesia.”
“Beh. Detto così sembra tutto semplice… non credi?”
“Ed è così infatti. È proprio semplice. Ci pensi bene. Guardi questo spartito. Vede? Queste sono le note. Vede come sono fatte? Sono solo dei pallini con le stanghette scarabocchiati su questo pezzo di carta. Sono solo delle macchioline di inchiostro messe una in fila all’altra. Poi arriva qualcuno che le mette insieme. Io, ad esempio. Arrivo con il mio violino e le leggo. E allora quelle macchie di inchiostro diventano Musica. Diventano Arte. Diventano Poesia. Diventano Bellezza. È come una Magia. Anche per Lui funziona così. Lo so. Così fa Lui con i nostri pensieri. Li prende tutti, li mette insieme e li trasforma”. Quindi, ridendo di gusto aggiunse “Visto come è semplice? Ed è pure conveniente, non costa nessuna fatica: fa tutto Lui. A noi tocca solo portare le note. Lui compone la musica. E la suona pure.”
Non so per quanto tempo rimasi a bocca aperta a guardarlo. Stupefatto. Quella mezza cartuccia di uomo era persino più basso dello schienale della panchina dove stavo seduto; ma in quel momento aveva la statura di un grande Maestro. Continuai a guardarlo attonito non so per quanto tempo. Sinché non fu lui a rompere il silenzio.
Sorrise, mi fissò a sua volta compiaciuto; quindi mi disse: “Grazie, signore. Grazie davvero di tutto. È stato bello restare qui a parlare con lei. Ora però devo andare. Ho le prove in orchestra tra dieci minuti. Corro.”
“Grazie a te, Gregor. Vai a suonare, forza. Magari ci rivediamo più tardi. Se quando avrai finito sarò ancora da queste parti ci salutiamo.”
“Si certo. Magari.” E aggiunse con aria triste.” Chissà…”.
Sempre impugnando il violino con una mano e l’archetto nell’altra guizzò rapidamente attorno alla panchina su cui ero seduto, passandomi alle spalle. Mi alzai e mi voltai per potergli rivolgere un altro saluto; ma Gregor già non c’era più. Certo che ne aveva di fretta. Probabilmente tra chiacchiere, merenda, suonatina e riparazione del violino gli avevo fatto accumulare un bel po’ di ritardo. Chissà; forse l’avrei rivisto. Desideravo proprio che accadesse.
Ora che avevo voltato lo sguardo indietro, notai che l’intera piazza era completamente deserta e silenziosa. I bambini, di cui avevo udito alle mie spalle le voci giocose mentre discorrevo con Gregor, non c’erano più. Non c’era più nessuno. Tutto era ripiombato nello stesso silenzio cimiteriale che mi aveva accolto quando mi ero fermato su quella panchina a riflettere. Tutto era fermo, immobile. Persino i corvi restavano appollaiati sui rami senza gracchiare. Immobili, in assoluto silenzio.
La pausa era ormai terminata. Mi misi, quindi, in marcia per raggiungere il punto di incontro con il resto del gruppo. Dovevamo riprendere il percorso. Dovevamo immergerci nuovamente in quel plasma grigiastro fatto di lacrime, sangue, orrore, disperazione. Ma dovevamo farlo. Lo dovevamo soprattutto a “loro”. Per quanto la mia generazione fosse innocente, senza alcuna responsabilità per quanto accadde, non potevamo esimerci da essere lì. Non solo per ricordare, ma per condividere. Andando a respirare la stessa aria che fu l’ultima per molti di loro. Andando a percepirne le grida ed i singulti, le urla ed i pianti. Così provando ad allontanare la morsa del senso di colpa che attanaglia inevitabilmente i sopravvissuti di ogni epoca, di ogni guerra, di ogni genocidio. Di ogni Olocausto.
Quella tempesta di pensieri e propositi mi tenne compagnia per tutto il tragitto. Nel frattempo la guida parlava… parlava… e parlava. Ma non ne colsi nemmeno una parola. Le mie gambe si muovevano in sincrono con quelle del gruppo; ma la mia mente era da tutt’altra parte. Per fortuna avevo incontrato Gregor, che aveva lievemente addolcito la mia giornata. Sarebbe stato bello poterlo rivedere.
L’ultima tappa della nostra visita era anche la più atroce: il Museo. Dove sono conservati ed esibiti come reliquie gli oggetti personali degli internati. In modo particolare era possibile vedere quanto era appartenuto ai bambini: vestiti, occhiali, matite, penne, quaderni, oggetti di cancelleria, disegni, pagelle scolastiche, bambole, giocattoli, strumenti musicali… E tante, tante stelle a sei punte di stoffa color giallo-limone che venivano cucite sugli indumenti a marchiare ogni ospite di Terezin.
Tutto era così angoscioso. La visione di ogni reperto davanti al quale mi soffermavo mi evocava un dolore fisico reale. Atroce.
Il mio respiro si fece affannoso. Ad un certo punto dovetti fermarmi appoggiandomi ad un muro, affinché si regolarizzassero i battiti impazziti del mio cuore. Non potevo fermarmi a lungo; per cui ripresi barcollando quell’orrida esplorazione.
Così giunsi davanti ad una vetrinetta illuminata, all’interno della quale erano adagiati numerosi strumenti musicali. Alcuni flauti, un paio di armoniche a bocca, qualche plettro, un violino. Osservandoli, iniziai a fantasticare; cercando di immaginare se quegli strumenti erano usati da un impettito maschietto o da una vezzosa ragazzina. Se i genitori dei piccoli esecutori fossero presenti alle esibizioni. Se le ultime note che avevano emesso fossero state suonate per un saggio solista oppure in un concerto. Se… Se… E ancora se…
Il violino non appariva messo molto bene. Il legno era ormai quasi totalmente deteriorato dal tempo e dall’umidità. Ed in numerosi punti appariva scheggiato. Inoltre su buona parte della sua superficie numerose listarelle si sollevavano accartocciandosi come trucioli; così deturpando quella cassa armonica che in un tempo migliore doveva essere stata ben levigata e lucida di vernice. Le corde mancavano tutte e quattro. I piroli che un tempo le tendevano erano ridotti a frammenti di legno spezzati. Ora assomigliavano piuttosto a fiammiferi usati, infilati irregolarmente sui lati di quel che un tempo doveva essere un manico lucido e liscio. E che ora sembrava un ramo di ciliegio calpestato.
Alla sommità del manico, un lato del riccio era attraversato da una fenditura. Profonda al punto da consentire di intravedere gran parte dello spessore al suo interno, che appariva di colore chiaro. Sembrava una piaga sanguinante apertasi su una pelle bruciata. I frammenti di quella frattura erano ingegnosamente tenuti insieme da una specie di nastro scuro. Questo, avvolgendosi attorno al riccio, accostava i lembi della spaccatura come fa un cerotto su una ferita. Era evidente che quel danno era stato riparato alla bell’e meglio con materiali di fortuna. Ma era stato fatto un buon lavoro, in definitiva.
Mi incuriosiva sapere di cosa fosse fatta quella specie di fettuccia brunita. Pensai che potesse essere un tirante in metallo, magari ricavato tagliando a striscioline un contenitore in latta. No, no. Sembrava, invece, essere fatto di un materiale morbido, più duttile e adattabile. Magari poteva essere una corda intrecciata più volte per renderla più solida. No… In effetti anche questa ipotesi non sembrava quella giusta. No. Non lo era. Una corda sarebbe apparsa sfilacciata in qualche punto. Quella fettuccia era invece assolutamente compatta.
Doveva necessariamente trattarsi di un qualche altro tipo di materiale. Per scrutare meglio mi avvicinai ancor più alla teca, arrivando ad appoggiarmici. Premetti tanto forte con la fronte sul vetro, da stampare sulla sua superficie un alone di sudore denso e candido. Quindi strizzai le palpebre per acuire lo sguardo. Ora, così vicino, mi sarebbe stato più agevole riuscire a riconoscere il materiale di quella riparazione. Lo osservai a lungo. Ma sì… sembrava essere cuoio. Si, si: era proprio cuoio. Riuscì anche a notare che lungo il senso della sua lunghezza, proprio al centro, si intravedeva una fila di forellini distanti poco meno di un centimetro l’uno dall’altro.
Trasalì, facendo un balzo all’indietro. Perché ad un tratto fu chiaro di cosa si trattasse.
Iniziai ad essere percorso da brividi squassanti. Soffocai a malapena un grido portandomi una mano a coprire la bocca. Non c’erano dubbi: si trattava di un cinturino da orologio. Forse di colore marrone scuro in origine; ed ormai abbrunito dal tempo e dalla sporcizia.
Aguzzai nuovamente lo sguardo: dovevo essere sicuro di quel che avevo davanti agli occhi. Scrutai quindi con estrema attenzione, millimetro per millimetro quella striscetta forata. Appena sotto di essa, dove il cuoio per effetto del tempo si era ormai sollevato contraendo le proprie fibre, si riusciva a scorgere una superficie più chiara rispetto a quella esterna. Al centro di questa si intravedeva una piccola macchia bluastra. A guardarla attentamente era persino possibile distinguere che, in effetti, era formata a sua volta da due macchioline più piccole. Sembravano due lettere. Ma sì: erano davvero due lettere, una affiancata all’altra. Erano una “C” ed una “L”.
Le riconobbi. Erano le mie. Iniziai a comprendere. Mi si bloccò il respiro.
Mentre non riuscivo a staccare gli occhi da quelle macchioline di inchiostro, qualcosa mi risalì dal centro del petto e si andò a fermare in gola. Decidendo di non muoversi più: né verso l’alto né riscendendo da dove era arrivato.
E fu solo allora che permisi alle lacrime di inondarmi il volto.
FINE
Testo primo classificato al Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Città di Bitetto” (XXV Edizione, anno 2019) nella sezione Narrativa Inedita.